A CHE TITOLO…

Nei social la Medicina è diventata conversazione pubblica. È un bene: più voci significano più domande, più idee, più occasioni di spiegare in chiaro ciò che spesso resta chiuso in aule universitarie e riviste specialistiche. È anche un rischio: quando si parla di salute, l’autorevolezza non può essere un filtro vintage né un pretesto per zittire; ma non può nemmeno essere sostituita da like, carisma o storytelling. La domanda, allora, è semplice e decisiva: a che titolo uno parla?

I social hanno accorciato le distanze tra chi cura, chi studia e chi vive la malattia. Hanno dato spazio a intuizioni, a critiche utili, a prospettive dal letto del paziente o dal laboratorio. Hanno costretto esperti e istituzioni a essere più comprensibili, a farsi verificare in tempo reale. La conoscenza si muove meglio quando è sfidata.

La stessa forza che accelera il dibattito accelera anche l’errore: semplificazioni, aneddoti travestiti da prove, conflitti d’interesse non dichiarati, “guru” che invadono campi in cui non hanno formazione. In sanità, l’errore non è solo intellettuale: può cambiare comportamenti, terapie, esiti.

“A che titolo”: la carta d’identità di chi parla

Valutare la competenza di una voce non è snobismo: è tutela del pubblico. I “titoli” non sono soltanto i gradi appesi al muro; sono strati di responsabilità verificabili. Senza pretesa di completezza, ecco quali contano davvero (e perché):

  • Istruzione: laurea pertinente, riconoscimento del titolo (se estero). Dice dove è iniziata la competenza.
  • Post-laurea: specializzazione/board, master, dottorato. Dice quanto è profonda e in quale area.
  • Esperienza clinica: anni di pratica, casistica documentabile, ruolo di responsabilità (ambulatorio, reparto, sala operatoria). Dice se quella competenza è stata messa alla prova sui pazienti.
  • Esperienza didattica: insegnamento formale, tutoraggio, produzione di materiali educativi. Dice se chi parla sa spiegare e aggiornarsi.
  • Ricerca e pubblicazioni: articoli peer-reviewed, atti di congresso, capitoli di libro, linee guida a cui ha contribuito, non solo l’h-index. Dice se le idee sono passate dal vaglio dei pari.
  • Brevetti e trasferimento tecnologico: innovazione sì, ma con dichiarazione dei conflitti d’interesse.
  • Partecipazione a trial e comitati etici: conoscenza del metodo e delle regole che proteggono i pazienti.
  • Iscrizione all’Ordine/Albo e certificazioni: la cornice deontologica.
  • Formazione continua (ECM/CME): la manutenzione della competenza.
  • Trasparenza: conflitti d’interesse, sponsorizzazioni, link alle fonti, data di aggiornamento.
  • Campo specifico: la competenza è locale, non universale. Un eccellente cardiologo non è automaticamente un’autorità in nutrizione o oncologia.
  • Prove citate: uso corretto della gerarchia dell’evidenza (revisioni sistematiche e RCT prima degli aneddoti) e capacità di distinguere opinione da fatto.
  • Esperienza vissuta (paziente/caregiver): non è un titolo clinico, ma porta un sapere essenziale. Deve convivere con i dati, non sostituirli.

Questi elementi non servono a creare caste, ma a rendere leggibile l’affidabilità. È la differenza tra un profilo che dichiara: “Sono medico, specialista in X, insegno Y, ecco le mie pubblicazioni e i miei conflitti” e uno che si presenta come “esperto di salute” senza coordinate.

Le conseguenze (pratiche) per tutti

Per chi comunica: dichiarare subito il proprio perimetro (“Parlo in qualità di… in questo specifico ambito… ecco le fonti”). Separare divulgazione da consulenza individuale. Correggere pubblicamente gli errori. Rifiutare sponsorizzazioni che confondono il messaggio, o almeno dichiararle in modo evidente.

Per le piattaforme: premiare la trasparenza dei profili (una sorta di bollino di competenza basato su titoli verificati e disclosure), penalizzare chi spaccia opinioni per linee guida, rendere facile linkare articoli e linee guida originali. L’algoritmo oggi misura attenzione; dovrebbe misurare anche affidabilità.

Per Ordini, Università, Società scientifiche: portare la formazione alla comunicazione nel curriculum sanitario; pubblicare elenchi pubblici e chiari di specialisti e incarichi; offrire fact-checking agile quando scoppia una controversia virale.

Per i media: nelle interviste chiedere sempre “a che titolo” e mostrarlo a schermo. Contestualizzare le prove, riportare le incertezze, evitare il ping-pong artificiale tra opinioni minoritarie e consenso scientifico.

Per il pubblico: cinque domande lampo prima di fidarsi:

  1. Chi sei esattamente e in quale campo lavori?
  2. Che prove porti e di che livello sono?
  3. Hai conflitti d’interesse?
  4. C’è consenso o stai proponendo un’ipotesi?
  5. La tua affermazione è aggiornata e verificabile?

La posta in gioco

Non si tratta di mettere o rimettere i “camici” su un piedistallo. Si tratta di riconoscere che, in sanità, la libertà di parola convive con la responsabilità della prova. I social hanno aperto la porta: teniamola aperta, ma con un cartello chiaro sopra la maniglia. C’è scritto “A che titolo?”. Chi sa rispondere, entri. Gli altri, studino, dichiarino i limiti, portino dati. È così che la conversazione pubblica diventa cura, e non rumore.

Lascia un commento