IL GUANTO E LA  CURA: UNA STORIA DI MANI

Oggi nessuno metterebbe in dubbio l’importanza dei guanti nella pratica medica, ma la loro storia è più recente, complessa e affascinante di quanto si creda. Prima che la microbiologia svelasse il ruolo dei germi nelle infezioni, il contatto diretto con il sangue, i tessuti o le secrezioni dei pazienti era considerato normale, quasi inevitabile. Le mani nude del chirurgo — simbolo di esperienza, fermezza e maestria — erano anche, inconsapevolmente, il principale veicolo di contagio.

Fino alla metà del XIX secolo, gli interventi chirurgici si svolgevano spesso in ambienti privi di qualsiasi misura antisettica. Le mani dei medici, che passavano da un paziente all’altro senza lavaggio, erano intrise di materiale organico, e la mortalità postoperatoria per infezioni, gangrena e sepsi era altissima. È in questo contesto che figure come Ignác Semmelweis e Joseph Lister cambiarono la storia della medicina.

Semmelweis, ostetrico ungherese a Vienna, osservò negli anni Quaranta dell’Ottocento che le donne che partorivano assistite da studenti di medicina morivano di febbre puerperale molto più frequentemente di quelle assistite da levatrici. Scoprì che gli studenti, reduci dalle dissezioni anatomiche, non si lavavano le mani prima di assistere al parto. Intuì — ben prima che Pasteur scoprisse i batteri — che le mani dei medici trasportavano “particelle cadaveriche” e impose il lavaggio con una soluzione di cloruro di calce. La mortalità precipitò, ma le sue idee furono accolte con scetticismo e ostilità.

Qualche decennio dopo, Joseph Lister, chirurgo inglese, portò le intuizioni di Semmelweis e di Pasteur in sala operatoria. Introducendo l’uso dell’acido fenico per disinfettare strumenti e le mani, fondò la chirurgia antisettica. Lister non usava ancora guanti, ma aprì la strada a un concetto nuovo: la sterilità del gesto medico.

Fu negli anni 1890 che il guanto divenne un simbolo concreto di questa rivoluzione. Il merito spetta al già citato William Stewart Halsted, professore di chirurgia al Johns Hopkins Hospital di Baltimora. La leggenda, che la documentazione storica conferma in larga parte, racconta che Halsted fece realizzare da Goodyear, la compagnia produttrice di gomma, dei guanti su misura per la caposala Caroline Hampton, che soffriva di gravi dermatiti dovute ai disinfettanti usati per lavarsi le mani. Le mani di Caroline furono risanate, ma Halsted si accorse presto che la presenza dei guanti riduceva anche drasticamente le infezioni chirurgiche nei pazienti.

All’inizio molti chirurghi consideravano il guanto una sorta di intralcio: temevano che riducesse la sensibilità tattile e la precisione delle manovre. Ma i risultati clinici furono così convincenti da rendere il guanto parte integrante dell’abbigliamento sterile. Intorno al 1900, nei principali ospedali statunitensi e europei, il suo impiego in sala operatoria era già prassi consolidata.

Con il progredire dei materiali e della tecnologia, la gomma grezza lasciò il posto a composizioni più sottili e adattabili. Dopo la Seconda guerra mondiale comparvero i guanti in lattice naturale, elastici e confortevoli, poi negli anni Ottanta e Novanta le versioni in nitrile o vinile, pensate per ridurre il rischio di allergie e migliorare la resistenza meccanica.

L’uso dei guanti non si limitò alla chirurgia. In ostetricia, la loro introduzione segnò un punto di svolta nella lotta contro la febbre puerperale, che fino ad allora mieteva vittime a migliaia. Il parto, un evento fisiologico ma intrinsecamente rischioso, divenne più sicuro grazie all’adozione di pratiche di igiene rigorose e all’impiego dei guanti durante le manovre esplorative o estrattive.

Nel corso del Novecento, l’idea del “guanto medico” si diffuse in tutti i settori sanitari: dai laboratori di microbiologia alle sale di emergenza, dalle terapie intensive ai reparti di isolamento. Persino nelle cure domiciliari e nella medicina di base, i guanti divennero sinonimo di professionalità, protezione e rispetto reciproco tra operatore e paziente.

La pandemia di HIV negli anni Ottanta e, più recentemente, quella da SARS-CoV-2 hanno riaffermato il valore del guanto come strumento di barriera biologica, simbolo della prevenzione universale. Ma al di là della funzione di difesa, il guanto rappresenta anche una soglia culturale: quella che separa la cura come gesto tecnico dalla cura come gesto umano.

La tecnologia, dunque, ha reso i guanti sempre più sottili, elastici e sensibili. I materiali — dal lattice naturale ai polimeri sintetici come nitrile e vinile — vengono oggi selezionati per massimizzare comfort, biocompatibilità e percezione tattile. Tuttavia, nonostante i progressi, il tocco attraverso il guanto non è mai identico a quello diretto. Il tatto, che è il primo strumento diagnostico del medico e del terapista, subisce una modulazione: la pressione, la temperatura e la consistenza del tessuto biologico vengono filtrate, lievemente attenuate.

Per questo motivo, in alcune discipline manuali come la fisioterapia, l’osteopatia o la terapia miofasciale, la scelta di utilizzare o meno i guanti richiede una riflessione calibrata. In tali contesti, la percezione diretta delle tensioni, dei piani fasciali o della risposta cutanea del paziente è parte integrante dell’atto terapeutico. Tuttavia, vi sono circostanze — come in presenza di lesioni cutanee, infezioni dermatologiche o rischio di contatto con fluidi biologici — in cui la protezione del professionista (e, inversamente, del paziente) prevale sulla necessità di un tatto “nudo”.

L’uso del guanto, dunque, non è solo una questione di sicurezza, ma anche di etica sensoriale. Indossarlo o meno significa decidere il grado di distanza — fisica, ma anche simbolica — fra chi cura e chi è curato. La mano guantata preserva, protegge, evita contaminazioni; la mano nuda esplora, percepisce, comunica empatia.

In un’epoca in cui la medicina cerca costantemente un equilibrio tra tecnologia e umanità, il guanto diventa il simbolo di questa tensione: barriera necessaria, ma anche velo sottile che interpone tra due corpi la memoria di un contatto possibile. Forse la vera sfida sta nel saperlo usare non solo con rigore, ma con consapevolezza — sapendo quando la protezione è un dovere e quando il tocco diretto resta parte essenziale della cura.

Il primo guanto chirurgico della storia

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