IL GUANTO E LA  CURA: UNA STORIA DI MANI

Oggi nessuno metterebbe in dubbio l’importanza dei guanti nella pratica medica, ma la loro storia è più recente, complessa e affascinante di quanto si creda. Prima che la microbiologia svelasse il ruolo dei germi nelle infezioni, il contatto diretto con il sangue, i tessuti o le secrezioni dei pazienti era considerato normale, quasi inevitabile. Le mani nude del chirurgo — simbolo di esperienza, fermezza e maestria — erano anche, inconsapevolmente, il principale veicolo di contagio.

Fino alla metà del XIX secolo, gli interventi chirurgici si svolgevano spesso in ambienti privi di qualsiasi misura antisettica. Le mani dei medici, che passavano da un paziente all’altro senza lavaggio, erano intrise di materiale organico, e la mortalità postoperatoria per infezioni, gangrena e sepsi era altissima. È in questo contesto che figure come Ignác Semmelweis e Joseph Lister cambiarono la storia della medicina.

Semmelweis, ostetrico ungherese a Vienna, osservò negli anni Quaranta dell’Ottocento che le donne che partorivano assistite da studenti di medicina morivano di febbre puerperale molto più frequentemente di quelle assistite da levatrici. Scoprì che gli studenti, reduci dalle dissezioni anatomiche, non si lavavano le mani prima di assistere al parto. Intuì — ben prima che Pasteur scoprisse i batteri — che le mani dei medici trasportavano “particelle cadaveriche” e impose il lavaggio con una soluzione di cloruro di calce. La mortalità precipitò, ma le sue idee furono accolte con scetticismo e ostilità.

Qualche decennio dopo, Joseph Lister, chirurgo inglese, portò le intuizioni di Semmelweis e di Pasteur in sala operatoria. Introducendo l’uso dell’acido fenico per disinfettare strumenti e le mani, fondò la chirurgia antisettica. Lister non usava ancora guanti, ma aprì la strada a un concetto nuovo: la sterilità del gesto medico.

Fu negli anni 1890 che il guanto divenne un simbolo concreto di questa rivoluzione. Il merito spetta al già citato William Stewart Halsted, professore di chirurgia al Johns Hopkins Hospital di Baltimora. La leggenda, che la documentazione storica conferma in larga parte, racconta che Halsted fece realizzare da Goodyear, la compagnia produttrice di gomma, dei guanti su misura per la caposala Caroline Hampton, che soffriva di gravi dermatiti dovute ai disinfettanti usati per lavarsi le mani. Le mani di Caroline furono risanate, ma Halsted si accorse presto che la presenza dei guanti riduceva anche drasticamente le infezioni chirurgiche nei pazienti.

All’inizio molti chirurghi consideravano il guanto una sorta di intralcio: temevano che riducesse la sensibilità tattile e la precisione delle manovre. Ma i risultati clinici furono così convincenti da rendere il guanto parte integrante dell’abbigliamento sterile. Intorno al 1900, nei principali ospedali statunitensi e europei, il suo impiego in sala operatoria era già prassi consolidata.

Con il progredire dei materiali e della tecnologia, la gomma grezza lasciò il posto a composizioni più sottili e adattabili. Dopo la Seconda guerra mondiale comparvero i guanti in lattice naturale, elastici e confortevoli, poi negli anni Ottanta e Novanta le versioni in nitrile o vinile, pensate per ridurre il rischio di allergie e migliorare la resistenza meccanica.

L’uso dei guanti non si limitò alla chirurgia. In ostetricia, la loro introduzione segnò un punto di svolta nella lotta contro la febbre puerperale, che fino ad allora mieteva vittime a migliaia. Il parto, un evento fisiologico ma intrinsecamente rischioso, divenne più sicuro grazie all’adozione di pratiche di igiene rigorose e all’impiego dei guanti durante le manovre esplorative o estrattive.

Nel corso del Novecento, l’idea del “guanto medico” si diffuse in tutti i settori sanitari: dai laboratori di microbiologia alle sale di emergenza, dalle terapie intensive ai reparti di isolamento. Persino nelle cure domiciliari e nella medicina di base, i guanti divennero sinonimo di professionalità, protezione e rispetto reciproco tra operatore e paziente.

La pandemia di HIV negli anni Ottanta e, più recentemente, quella da SARS-CoV-2 hanno riaffermato il valore del guanto come strumento di barriera biologica, simbolo della prevenzione universale. Ma al di là della funzione di difesa, il guanto rappresenta anche una soglia culturale: quella che separa la cura come gesto tecnico dalla cura come gesto umano.

La tecnologia, dunque, ha reso i guanti sempre più sottili, elastici e sensibili. I materiali — dal lattice naturale ai polimeri sintetici come nitrile e vinile — vengono oggi selezionati per massimizzare comfort, biocompatibilità e percezione tattile. Tuttavia, nonostante i progressi, il tocco attraverso il guanto non è mai identico a quello diretto. Il tatto, che è il primo strumento diagnostico del medico e del terapista, subisce una modulazione: la pressione, la temperatura e la consistenza del tessuto biologico vengono filtrate, lievemente attenuate.

Per questo motivo, in alcune discipline manuali come la fisioterapia, l’osteopatia o la terapia miofasciale, la scelta di utilizzare o meno i guanti richiede una riflessione calibrata. In tali contesti, la percezione diretta delle tensioni, dei piani fasciali o della risposta cutanea del paziente è parte integrante dell’atto terapeutico. Tuttavia, vi sono circostanze — come in presenza di lesioni cutanee, infezioni dermatologiche o rischio di contatto con fluidi biologici — in cui la protezione del professionista (e, inversamente, del paziente) prevale sulla necessità di un tatto “nudo”.

L’uso del guanto, dunque, non è solo una questione di sicurezza, ma anche di etica sensoriale. Indossarlo o meno significa decidere il grado di distanza — fisica, ma anche simbolica — fra chi cura e chi è curato. La mano guantata preserva, protegge, evita contaminazioni; la mano nuda esplora, percepisce, comunica empatia.

In un’epoca in cui la medicina cerca costantemente un equilibrio tra tecnologia e umanità, il guanto diventa il simbolo di questa tensione: barriera necessaria, ma anche velo sottile che interpone tra due corpi la memoria di un contatto possibile. Forse la vera sfida sta nel saperlo usare non solo con rigore, ma con consapevolezza — sapendo quando la protezione è un dovere e quando il tocco diretto resta parte essenziale della cura.

Il primo guanto chirurgico della storia

A CHE TITOLO…

Nei social la Medicina è diventata conversazione pubblica. È un bene: più voci significano più domande, più idee, più occasioni di spiegare in chiaro ciò che spesso resta chiuso in aule universitarie e riviste specialistiche. È anche un rischio: quando si parla di salute, l’autorevolezza non può essere un filtro vintage né un pretesto per zittire; ma non può nemmeno essere sostituita da like, carisma o storytelling. La domanda, allora, è semplice e decisiva: a che titolo uno parla?

I social hanno accorciato le distanze tra chi cura, chi studia e chi vive la malattia. Hanno dato spazio a intuizioni, a critiche utili, a prospettive dal letto del paziente o dal laboratorio. Hanno costretto esperti e istituzioni a essere più comprensibili, a farsi verificare in tempo reale. La conoscenza si muove meglio quando è sfidata.

La stessa forza che accelera il dibattito accelera anche l’errore: semplificazioni, aneddoti travestiti da prove, conflitti d’interesse non dichiarati, “guru” che invadono campi in cui non hanno formazione. In sanità, l’errore non è solo intellettuale: può cambiare comportamenti, terapie, esiti.

“A che titolo”: la carta d’identità di chi parla

Valutare la competenza di una voce non è snobismo: è tutela del pubblico. I “titoli” non sono soltanto i gradi appesi al muro; sono strati di responsabilità verificabili. Senza pretesa di completezza, ecco quali contano davvero (e perché):

  • Istruzione: laurea pertinente, riconoscimento del titolo (se estero). Dice dove è iniziata la competenza.
  • Post-laurea: specializzazione/board, master, dottorato. Dice quanto è profonda e in quale area.
  • Esperienza clinica: anni di pratica, casistica documentabile, ruolo di responsabilità (ambulatorio, reparto, sala operatoria). Dice se quella competenza è stata messa alla prova sui pazienti.
  • Esperienza didattica: insegnamento formale, tutoraggio, produzione di materiali educativi. Dice se chi parla sa spiegare e aggiornarsi.
  • Ricerca e pubblicazioni: articoli peer-reviewed, atti di congresso, capitoli di libro, linee guida a cui ha contribuito, non solo l’h-index. Dice se le idee sono passate dal vaglio dei pari.
  • Brevetti e trasferimento tecnologico: innovazione sì, ma con dichiarazione dei conflitti d’interesse.
  • Partecipazione a trial e comitati etici: conoscenza del metodo e delle regole che proteggono i pazienti.
  • Iscrizione all’Ordine/Albo e certificazioni: la cornice deontologica.
  • Formazione continua (ECM/CME): la manutenzione della competenza.
  • Trasparenza: conflitti d’interesse, sponsorizzazioni, link alle fonti, data di aggiornamento.
  • Campo specifico: la competenza è locale, non universale. Un eccellente cardiologo non è automaticamente un’autorità in nutrizione o oncologia.
  • Prove citate: uso corretto della gerarchia dell’evidenza (revisioni sistematiche e RCT prima degli aneddoti) e capacità di distinguere opinione da fatto.
  • Esperienza vissuta (paziente/caregiver): non è un titolo clinico, ma porta un sapere essenziale. Deve convivere con i dati, non sostituirli.

Questi elementi non servono a creare caste, ma a rendere leggibile l’affidabilità. È la differenza tra un profilo che dichiara: “Sono medico, specialista in X, insegno Y, ecco le mie pubblicazioni e i miei conflitti” e uno che si presenta come “esperto di salute” senza coordinate.

Le conseguenze (pratiche) per tutti

Per chi comunica: dichiarare subito il proprio perimetro (“Parlo in qualità di… in questo specifico ambito… ecco le fonti”). Separare divulgazione da consulenza individuale. Correggere pubblicamente gli errori. Rifiutare sponsorizzazioni che confondono il messaggio, o almeno dichiararle in modo evidente.

Per le piattaforme: premiare la trasparenza dei profili (una sorta di bollino di competenza basato su titoli verificati e disclosure), penalizzare chi spaccia opinioni per linee guida, rendere facile linkare articoli e linee guida originali. L’algoritmo oggi misura attenzione; dovrebbe misurare anche affidabilità.

Per Ordini, Università, Società scientifiche: portare la formazione alla comunicazione nel curriculum sanitario; pubblicare elenchi pubblici e chiari di specialisti e incarichi; offrire fact-checking agile quando scoppia una controversia virale.

Per i media: nelle interviste chiedere sempre “a che titolo” e mostrarlo a schermo. Contestualizzare le prove, riportare le incertezze, evitare il ping-pong artificiale tra opinioni minoritarie e consenso scientifico.

Per il pubblico: cinque domande lampo prima di fidarsi:

  1. Chi sei esattamente e in quale campo lavori?
  2. Che prove porti e di che livello sono?
  3. Hai conflitti d’interesse?
  4. C’è consenso o stai proponendo un’ipotesi?
  5. La tua affermazione è aggiornata e verificabile?

La posta in gioco

Non si tratta di mettere o rimettere i “camici” su un piedistallo. Si tratta di riconoscere che, in sanità, la libertà di parola convive con la responsabilità della prova. I social hanno aperto la porta: teniamola aperta, ma con un cartello chiaro sopra la maniglia. C’è scritto “A che titolo?”. Chi sa rispondere, entri. Gli altri, studino, dichiarino i limiti, portino dati. È così che la conversazione pubblica diventa cura, e non rumore.

POESIE FAVOLOSE

dalla Prefazione, di Francesco Zanoncelli

“…l’attesa è già amore” fine verso della raccolta magicamente poetica che ho l’onore e l’immenso piacere di commentare.

L’attesa, vissuta nel silenzio dei propri pensieri, la ritengo l’estrema ricerca della parola, che non è mai una fine, piuttosto una condizione sicuramente portatrice di Libertà e di vita. Essa è anche necessità e l’autore lo sa, perché attinge ad una conoscenza in cui il rumore, la cacofonia, la barbarie che tutto pervade, hanno preso il sopravvento. Di conseguenza, alimentando l’incapacità di realizzarlo, questo silenzio diviene un limite insormontabile, a meno che non scaturisca in noi, impellente e violento, il desiderio e il coraggio di approdare alle rive magiche e sconosciute dell’amore.

Oggi siamo in una società che parla troppo o, per eccesso opposto, si chiude nel mutismo, perché, appunto, non conosce il silenzio, per cui raramente accede alle sue pause preziose. Infatti, è proprio grazie a queste che la “parola” diviene canto, poesia, elevato carme. Non a caso, Kavakis, Rilke, Van Gog, parlano del silenzio e della solitudine in maniera sublime, affermando che è proprio questa liturgia interiore che ci darà la capacità di conoscere noi stessi e gli altri, dando ragione al principio secondo cui con le parole, quando divengono poesia, tutto si può raggiungere anche le stelle: queste pagine impresse di “magico amore”, lo dimostrano.

Leggendo il titolo di questa raccolta, un incauto lettore potrebbe male interpretarne il senso: “ma chi si crede di essere questo? Se le poesie sono favolose lo faccia dire ad altri e ponga il suo pensiero nelle mani virtuose di un’umiltà letteraria sempre più rara”.

No!

Quel “favolose” è favoloso, mai termine fu più adatto ai silenzi, alle parole, alle epifanie qui contenute, all’infinita avventura vissuta dai protagonisti, in quanto essi hanno avuto non solo il coraggio e il dono di attingere ad una favola, ma pure la capacità di realizzarla.

Le favole, appunto, quasi per convenzione, iniziano sempre con un “c’era una volta”, ma in questa occasione occorre fare un’eccezione, un necessario strappo alla regola, e pronunciare sommessamente, in quanto si tratta di un volo leggero: “C’è ora!”

Le favole da sempre incantano, ma qui, con armonia, melodia, concertazione, filigrana musicale legata ad un atto poetico fine e coinvolgente, il pentagramma si fa canto, voce e silenzio che sussurra.

“Il silenzio delle parole apre scrigni segreti”, ci narrano i due protagonisti, coinvolti nell’avventura di “Una vicinanza che li allontana”, di un ossimoro che li imprigiona in un incantesimo composto da bagliori e sfumature di luce, in cui le ombre della fata e dell’uomo che scrive, si confondono in una tavolozza pittorica di colori, senza mai comporre l’affresco del loro desiderio.

E ancora: “I nostri occhi hanno fatto l’amore prima della pelle” ci porta su di una spiaggia dorata e calda che evoca il ventre solare della poesia, mentre il suo verticale sorriso è penetrato dal raggio di un verso cantato dal poeta, affinché l’incontro non divenga ancora fuga, ma connubio di sensi, magma ancestrale di un’entità invocata, desiderata, chiamata amore.

Sì, come afferma l’autore, le fate non hanno bacchetta magica, né i poeti voce per ammaliare, ma solo versi per amare, con cui il poeta, ben ispirato da colei che abita magici boschi e cieli eterei, esprime pure il suo coraggio letterario, “avendo l’ardire” di modificare pure un testo che è pietra miliare di una lingua stupenda, il vocabolario, alleggerendo il suo ricco contenuto della congiunzione “se”, per togliere ogni dubbio non solo all’amore, ma  anche assicurare certezze ad una condizione umana che si sorregge spesso su di un precario equilibrio.

Bene.

La meraviglia di queste pagine si riassume in quel lettore che, come un bambino di fronte ad una favola particolare, realizza, ascoltando, che il mordere il cuore di un poeta è il bacio più profondo, più desiderabile.

Che è nel silenzio che si trova il coraggio delle parole aperte all’amore e che pure è terminato il tempo di leggere poesie agli alberi.

Che occorre ritrovare il desiderio di cercare “nella palude delle parole non dette” per recuperare bellezza e che pure nel tenue lume della poesia e dell’amore la notte giunge alla tenerezza dell’alba, aprendo cieli tersi non oppressi da brume.

Che l’amore è distacco, necessaria avventura “anche se mi porta altrove”.
Che il bacio è fatato.
Che al bruco “non servono ali”,
Che esistono gufi parlanti, e rovi e boschi oscuri, fiumi impetuosi, e lisce pietre, e fuochi ed ombre e spiagge dorate baciate dal sole,

Poi, come fiume in piena, le novelle continuano, narrandoci che sulla luna non sono arrivati gli astronauti con un mostro metallico, ma una fata e un poeta, a bordo di una favola che volava con le ali della poesia, realizzando, ancora, che l’amore è Libertà, perché sdogana la coscienza da ogni zavorra che limita il pensiero.

Con “Affida il tuo dolore al respiro della terra, e lei saprà trasformarlo.” ci giunge intatto l’alito della natura che poesia e magia colgono insieme.
Poi, “tra le tende smosse dal vento, // nelle lenzuola disfatte” pensiero e parola si fanno carne e volto e carezza e sorriso e respiro affrettato scomposto dall’amore.
Poi il canto della Fata, che pervade e incontra una natura intatta in un Eden privo di padrone, dove la voce diviene filigrana per giungere a chi la sa ascoltare e dove “un biglietto per il cielo” non costa niente per un poeta straordinario che riesce pure ad entrare in una valigia per poter viaggiare con la magia.

E’ proprio vero, come afferma lo scrittore e poeta polacco Stanislaw Jerzy Lec, che i poeti sono come i bambini: “quando siedono a una scrivania, non toccano terra con i piedi”.
“Specialmente quando incontrano la magia di una fata” aggiungo io.

Concludo con un pensiero dell’autore, che così definisce l’amore:
“… un miracolo che accade agli umani una sola volta nella vita. E quando accade, non ha più senso avere paura.”
Grazie Fata ! Grazie uomo che scrive!

Per sempre, Francesco


Poesie Favolose
La fata e il poeta. Il silenzio sussurra e la parola vibra. Storia d’amore allo soglia del bosco incantato 
di Ferdinando Paternostro
2025 ATS Giacomo Catalani Editore
ISBN-13 979-1280189424
Amazon

La Giostra Segreta

Nella profondità del bosco, nascosta tra rami intrecciati e  petali di fiori selvatici, esisteva una radura segreta dove solo la fata Lilli sapeva arrivare. Lì, tra le ombre delicate delle foglie, sorgeva una giostra incantata: i suoi cavalli erano scolpiti nell’avorio della luna, i fiori che la decoravano sbocciavano di notte e la musica che la faceva girare era il canto delle stelle.

Era il rifugio di Lilli, il posto dove si ritirava quando il suo cuore si faceva pesante, quando la malinconia sussurrava tra le ali e il vento le ricordava che anche i sogni più belli, a volte, svaniscono. Quella sera, la Fata era salita sulla giostra con passo lieve, lasciandosi cullare dal movimento lento, mentre il suono dolce e antico delle note l’accompagnava nei suoi pensieri.

Ad ogni giro, i suoi occhi si riempivano di ricordi: persone che aveva amato, che avevano condiviso con lei il vento e la luce, che avevano riso accanto a lei su quei cavalli di sogno… ma che adesso non c’erano più. Il suo cuore batteva piano… la giostra della vita, che gira, gira, fino a che un giorno tutti devono scendere.

Ma proprio mentre la tristezza la avvolgeva come un velo di nebbia, Lilli avvertì una presenza. Tra i fiori, nascosto come una foglia tra le altre, c’era il poeta. Non parlava, non si muoveva, ma i suoi occhi brillavano, carichi d’amore e di lacrime. Guardava Lilli con un’intensità che trapassava il tempo, come se in quello sguardo volesse donarle tutta la bellezza che esisteva, tutta la speranza che il suo cuore poteva contenere.

Lilli se ne accorse. Scese dalla giostra con la grazia di un petalo nel vento, lo raggiunse e, senza dire nulla, gli tese le braccia. Lo prese per mano e lo condusse al centro della radura, dove un trono d’oro e velluto attendeva chi sapeva vedere oltre il dolore. Il poeta si sedette, stupito, e Lilli, con un battito d’ali, accese tutte le luci della giostra.

Le lanterne si accesero come stelle, i fiori si aprirono in un’esplosione di colori, la musica cambiò. Non era più malinconica, ma luminosa, dolce, vibrante. I cavalli iniziarono a muoversi con più leggerezza, come se danzassero sulle nuvole.

Il poeta prese la mano di Lilli e la guardò negli occhi.

“L’amore non finisce, nemmeno quando qualcuno scende dalla giostra — sussurrò. — Rimane nelle luci che continuano a brillare, nella musica che non smette mai di suonare.”

E con quelle parole, gli strinse la mano e salì con lei. Insieme, girarono e girarono, mentre la notte si riempiva di stelle e il bosco si accendeva di magia.
Da allora, ogni volta che Lilli sentiva il peso della tristezza, sapeva che in quella radura, tra i cavalli di luce e i fiori danzanti, ci sarebbe sempre stato un giro in più da fare, una nuova musica da ascoltare, e … un poeta pronto a stringerle la mano e a ricordarle che nulla, nell’Amore vero, si perde.

#1000coseinvecedisanremo

1. Ripassare le “vie di moto non piramidali”
2. Imparare a cucinare la Sacher Torte
3. Leggere un bel libro di poesie
4. Riappaiare i calzini estivi e ritrovarci due cravatte
5. Fare un ritratto, farsi un autoritratto, farsi fare un autoritratto
6. Imparare trentacinque parole a sera di una lingua straniera a caso e tradurle in finnico
8. Chiedersi che fine ha fatto il numero 7 dell’elenco …
9. Contattare su Instagram la più bella (il più bello) del tuo Liceo e con la scusa di un libro prestato e mai restituito provare a invitarlo/a cena
10. Buttare dall’armadietto i farmaci scaduti e non ricomprarli per ottimismo
11. Riaccordare la chitarra, il flauto, la batteria da cucina
12. Ricercare l’attualità dei filosofi presocratici
13. Cambiare le guarnizioni al rubinetto del bagno
14. Imparare a fare per bene lo squat, la frittata con le cipolle, la coda alla Posta
15. Aspirare i tappetini della macchina
16. Imparare in ordine alfabetico i nomi delle strade che si percorrono ogni giorno
17. Travasare la stella di Natale prima di Pasqua
18. Lucidare gli scarponcini, anche non sai sciare
19. Srotolare le cravatte
20. Pensare alla meta di un viaggio e anche alla metà con cui farlo
21. Cercare un nome per la voce del coccodrillo… “Il coccodillo come fa” ?
22. Imparare a stirare il colletto della camicia, anche quello con i bottoncini
23. Cercare sul proprio partner cinque nuovi punti erogeni, unirli e vedere che disegno esce
24. Entrare in un bar a caso e chiedere il solito
25. Depilarsi i tragi, prima che se ne accorgano
26. Fare monoporzioni sottovuoto di ‘nduja per i tempi di magra
27. Cancellarsi dai gruppi di Facebook dove ti hanno infilato proditoriamente (Terrapiattisti anonimi, La teoria del digiuno delle ore dispari, Cosa si nasconde dietro la pratica quadriennale dell’anno bisestile)
28. Hackerare il server della banca del seme per avere notizie della tua progenie
29. Comunicare con l’alfabeto Morse e una pila con il tuo dirimpettaio di condominio…
30. Chiedere agli amici psichiatri il segreto di una buona maionese fatta in casa
31. Memorizzare la targa dell’auto (moto) propria
31 BIS. Memorizzare la targa dell’auto (moto) dell’amante del proprio compagno/a per evitare, rientrando in casa, sceneggiate… (siamo civili)
32. Finire di montare (con immane fatica) la libreria dell’Ikea, appellando i vari pezzi in finnico-partenopeo… strunz, piezzemmrd, chitemuort.
33. Telefonare a numeri a caso e chiedere come sta zia Adele
34. Invitare a casa il dimostratore del Folletto e vendergli il proprio Bimbi usato
35. Calcolare a mente fino alla ventottesima cifra del pi-greco
36. Imparare a sbucciare le arance con coltello e forchetta
37. Convincere diplomaticamente le zanzare che hanno svernato in casa ad andare altrove… senza spargimento di sangue
38. Usare ago e filo per i bottoni penduli delle giacche
39. Imparare a memoria le tre o quattro principali tavole optometriche per fare poi un figurone con l’oculista
40. Pulire il tostapane
41. Scavare un buco in cantina alla ricerca di reperti Etruschi.
42. Farsi una Tecar
43. Citofonare ai vicini di casa chiedendo se c’è Gigi
44. Scrivere tre parole che fanno rima con “mulo”
45. Insegnare a un migrante Ghanese la Calabrisella, per integrarlo gradualmente al Nord
46. Elencare le funzioni del pavimento pelvico e farne una a caso
47. Definire una volta per tutte se la propria cucina è componibile o scomponibile
48. Finire il puzzle di Rocco Siffredi in posa da Uomo Vitruviano e ricalcolare i parametri di Leonardo da Vinci
49. Cambiare tutte le password con la data di nascita dell’ex.
50. Verificare se hai i denti del giudizio.


51. Uscire in accappatoio sul balcone, spalancare le braccia al cielo e cantare a squarciagola “We are the Champions”
52. Recensire con 5 stelle su Google l’idraulico, sperando che la prossima volta non ti salassi.
53. Controllare il livello dell’olio della macchina, dei peperoncini piccanti e della sardella
54. Provare a vendere su eBay la serie completa dei film di Alvaro Vitali
55. Fare una partita scacchi da solo ed esultare per lo scacco matto
56. Mangiare l’ultimo panettone della scorta natalizia
57. Scoprire che il papà di Cappuccetto si chiamava Stefano Rosso e che il cacciatore era l’amante della nonna
58. Aggiornare le volontà testamentarie e chiedere agli eredi di aggiungere sulla lapide il QR code con il link al profilo Facebook e Instagram
59. Riscrivere la saga di Harry Potter ambientandola a Poggibonsi
60. Rispondere all’ultima email della cartella “posta in arrivo” datata ottobre 2018…”mi scuso per il ritardo nella risposta. Ho trovato questo messaggio nello spam..”
61. Inventare una serie completa di esercizi posturali da supino e da prono da eseguire prima, dopo e durante l’amplesso
62. Imparare ad imitare le voci dei politici per fare scherzi telefonici...mi consenta !
63. Aprire una partita IVA a nome di tuo cognato.
64. Mettere a bagno i fagioli per il giorno dopo.
65. Incollare un cartone tagliato a cerchio sul vetro della finestra per vedere tutte le sere l’eclissi di luna
66. Scrivere un trattato breve sulle differenze tra il palo della lap dance e palo della cuccagna
67. Fare una storia su Instagram con le foto di tutto quello che hai mangiato dal 1987 ad oggi, compreso l’arrosto di Bisonte che ti cucinò il pronipote di Buffalo Bill
68. Delineare il profilo psicologico dei tuoi vicini conoscendo soltanto il nome della loro WiFi (se_ti_attachi_ti_sdrumo; farfallina_amorosa36; jack_il_trapano…)
69. Lo dice la parola stessa
70. Organizzare una maratona per le tue tartarughe
71. Scrivere un libro di barzellette tristi.
72. Fare jogging all’indietro per rivivere il passato in modo dinamico.
73. Iscriversi a un corso di telepatia, poi lamentarsi con il maestro perché non ti capisce
74. Mandare un messaggio vocale di due ore trentasei minuti per spiegare perché non ti piace la crostata con le albicocche
75. Portare la tua ortensia a passeggio con il guinzaglio.
76. Mettersi in una coda a caso, fare tutta la fila lamentarsene (.. non esistono le file di una volta…)
77. Parlare con Alexa in latino.
78. Rispondere alle mail di spam con consigli motivazionali.
79. Mandare un’email di dimissioni a un’azienda in cui non lavori e vedere se ti rispondono.
80. Scambiare i nomi dei condomini sulle cassette delle lettere per movimentare un po’ l’atmosfera e avere una scusa per conoscere la bionda del quarto piano…”guardi per sbaglio ho ricevuto la sua posta…”
81. Indossare un cartello con scritto “Work in progress” e ignorare qualsiasi domanda a riguardo.
82. Inviare curriculum alla NASA per il ruolo di “Osservatore della Luna”, specificando che lo fai gratis da anni.
83. Andare in un ristorante stellato e chiedere “Il menù bimbi, grazie”
84. Organizzare un convegno dal titolo “Come evitare le responsabilità” e poi non presentarti.
85. Entrare in un bar e ordinare “Un caffè, ma con la profondità emotiva di un tramonto”
86. Infilarsi in un ascensore pieno, guardare tutti e dire “Vi starete chiedendo perché vi ho riuniti qui…”
87. In un ristorante stellato, ordinare acqua del rubinetto con aria snob e dire: “Annata 2024, per favore”
88. Fare una torta, accendere le candeline e soffiarle con aria trionfante senza spiegare nulla.
89. Rispondere a “Buonasera!” con “Ancora da confermare”
90. Mettere lo stato WhatsApp su “Penso, quindi sbaglio”
91. Chiedere l’approvazione dell’UNESCO per essere dichiarato patrimonio dell’umanità
92. Comprare tre pesci rossi e insegnargli a giocare a poker
93. Lanciare una petizione per rendere il bidet obbligatorio a livello mondiale
94. Andare in libreria e chiedere “quel libro che ho visto da qualche parte ma non ricordo il titolo”
95. Andare in una sala d’attesa e applaudire improvvisamente
96. Fare un bagno nella vasca vestito da pirata per “esplorare le acque sconosciute”
97. Creare una band musicale composta da persone che sanno suonare il clacson
98. Convincere il tuo nuovo vicino che sei un agente segreto sotto copertura
99. Andare al cinema e ridere a momenti sbagliati per confondere il pubblico
100. Chiedere ai tuoi Amici di continuare l’elenco…

#1000coseinvecedisanremo

Il doppio volto di Leonardo: il segreto della Gioconda

Tra il celebre ritratto della Monna Lisa, custodito al Louvre, e il presunto autoritratto di Leonardo da Vinci, conservato nella Biblioteca Reale di Torino, esiste un’affascinante e misteriosa corrispondenza che sta alimentando nuovi studi sull’opera del genio fiorentino.

L’autoritratto in questione, realizzato a sanguigna su carta intorno al 1515, raffigura un uomo anziano con una folta barba e un’espressione intensa e riflessiva. Nonostante sia spesso considerato una rappresentazione di Leonardo negli ultimi anni della sua vita, alcuni studiosi hanno messo in dubbio l’autenticità di questo autoritratto. Tuttavia, la recente scoperta della sovrapposizione perfetta con il volto della Monna Lisa ha riacceso l’interesse su questa ipotesi.

Effettuando una semplice operazione grafica – ribaltando orizzontalmente il disegno e sovrapponendolo al ritratto della Monna Lisa – si osserva una coincidenza sorprendente: i contorni dei due volti, incluse le proporzioni del naso, degli occhi e delle labbra, combaciano quasi in modo speculare. Questo dettaglio rafforza l’idea che Leonardo abbia volutamente progettato le due opere come elementi complementari di un unico messaggio visivo.

La Monna Lisa, realizzata tra il 1503 e il 1519, è nota per il suo enigmatico sorriso e per il suo sguardo che sembra seguire l’osservatore da qualsiasi angolazione. La donna ritratta ha ispirato infinite interpretazioni, alcune delle quali suggeriscono che dietro il suo volto si celi proprio un autoritratto velato di Leonardo stesso. La sovrapposizione con il disegno senile sembra confermare questa teoria e aggiunge un ulteriore strato di complessità simbolica.

Il risultato di questa fusione va oltre la semplice coincidenza artistica. Il volto della Monna Lisa, unendosi a quello dell’uomo anziano, sembra subire una metamorfosi temporale: la giovane donna diventa un uomo maturo, suggerendo un passaggio inevitabile dal femminile al maschile, dalla giovinezza alla vecchiaia. Questa trasformazione non è solo fisica, ma anche simbolica, poiché evoca il concetto di fluidità delle identità e la coesistenza delle energie opposte.

Leonardo potrebbe aver nascosto, attraverso queste due opere, un messaggio che trascende il tempo e le categorie sociali: il genere, l’identità e il tempo sono costruzioni illusorie, percezioni superficiali che nascondono una verità più profonda. Maschile e femminile, giovane e anziano, vita e morte sono semplicemente polarità estreme della stessa realtà.

Questo pensiero si collega direttamente ai principi dell’ermetismo, corrente filosofica che Leonardo conosceva bene. Secondo questi insegnamenti, ogni dualismo apparente è un’illusione: gli opposti non esistono in forma separata, ma sono solo variazioni dello stesso principio universale. Maschile e femminile coesistono in ogni individuo, così come luce e ombra, e insieme garantiscono l’equilibrio dell’intero universo.

Attraverso il suo duplice capolavoro, Leonardo sembra volerci invitare a guardare oltre le divisioni e le etichette, per riconoscere che tutte le polarità fanno parte di un’unità essenziale. Quella che percepiamo come separazione è solo un’illusione della mente e la vera saggezza sta nel riscoprire l’armonia nascosta dietro le apparenze.

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CERCO L’UOMO

Diogene di Sinope, vissuto nel IV secolo a.C., è uno dei più celebri filosofi della Scuola cinica. Noto per il suo stile di vita ascetico e per le sue idee provocatorie, Diogene incarnava l’ideale del vivere in accordo con la natura, rigettando le convenzioni sociali e i beni materiali.

Una delle immagini più famose è quella che lo ritrae con una lanterna accesa mentre vaga per le strade di Atene. Quando gli veniva chiesto cosa stesse facendo, rispondeva: “Cerco l’Uomo”. Con questa affermazione, Diogene intendeva denunciare l’ipocrisia e la corruzione della società, sostenendo che era difficile trovare un uomo vero, virtuoso e onesto.

Cosa vuol dire oggi essere intellettualmente onesti ? Siamo bombardati da informazioni frammentate e da opinioni polarizzate, perciò l’onestà intellettuale è un valore che assume un’importanza cruciale. Essere onesti intellettualmente significa, prima di tutto, impegnarsi a cercare e a dire la verità, anche quando questa verità appare scomoda, banale o controcorrente. È la capacità di affrontare le complessità del nostro tempo con un senso di responsabilità, riconoscendo le sfumature e evitando le semplificazioni ingannevoli.

Ad esempio, affermare che “la guerra è la morte della società civile” può sembrare una dichiarazione ovvia, quasi banale, ma è proprio nella ripetizione di queste verità fondamentali che risiede la nostra capacità di mantenere viva la coscienza collettiva. In un’epoca in cui la retorica bellica può essere facilmente strumentalizzata, ribadire l’orrore della guerra e l’urgenza della pace non è un atto di superficialità, ma un richiamo necessario alla realtà delle cose. Non dobbiamo mai smettere di ricordare che la guerra non è una soluzione, ma una ferita profonda nel soma della nostra umanità.

Allo stesso modo, riconoscere la nostra responsabilità nella crisi climatica e affermare che “tutti dovremmo preoccuparcene” è una verità che non può essere ignorata, per quanto ripetuta essa sia. L’onestà intellettuale ci impone di affrontare questa crisi con la serietà che merita, senza cadere nel cinismo o nella disperazione. Siamo tutti parte del problema, e proprio per questo dobbiamo essere tutti parte della soluzione. Non possiamo permetterci di delegare la responsabilità ad altri o di fingere che il cambiamento climatico sia un problema lontano o irrisolvibile.

Essere onesti intellettualmente oggi significa anche essere pronti a mettere in discussione le proprie convinzioni, a dialogare con chi la pensa diversamente e a riconoscere i propri errori. È un impegno verso una ricerca continua della verità, che richiede coraggio, apertura mentale e profonda umiltà. Vuol dire essere disposti sempre a imparare e a crescere, anche quando questo richiede di rivedere le proprie posizioni.

La filosofia di Diogene mirava a risvegliare le coscienze e a far riflettere sul vero significato della vita e della virtù. La sua figura è divenuta leggendaria, simbolo di ribellione contro l’ipocrisia e di ricerca della verità autentica. Diogene oggi ci direbbe che l’onestà intellettuale è una pratica quotidiana, richiede attenzione, impegno e, soprattutto, la volontà di affrontare la complessità del nostro mondo con integrità e trasparenza. In un tempo di crisi globali e divisioni profonde, essere onesti intellettualmente non è solo un dovere morale, ma una necessità urgente per la sopravvivenza della nostra umanità.
Ecco perché tutti dovremmo scendere in piazza con le nostre piccole lanterne.

OCCHIALI … DA SOLO !

Togliere gli occhiali da sole quando si parla con gli altri è considerato, a ragione, un segno di buona educazione. Questo semplice gesto permette di stabilire un contatto visivo diretto, fondamentale per la comunicazione empatica. Gli occhi, infatti, leggono e trasmettono emozioni ed attenzione, e mantenere il contatto visivo aiuta a costruire una connessione profonda con l’interlocutore.

Ricorderete analogamente che, in epoca COVID, anche l’uso della mascherina riduceva la capacità di percepire le espressioni facciali, rendendo più difficile le relazioni interpersonali.

Il riconoscimento facciale basato su punti di riferimento, come il triangolo formato da occhio-occhio-naso o orecchio-orecchio-mento, è una tecnica utilizzata in molti algoritmi di visione artificiale. Gli occhi e il naso sono zone chiave del viso; gli algoritmi, come i modelli di reti neurali convolutive, individuano i punti precisi dove si trovano le pupille e la punta del naso. Similmente, gli algoritmi possono individuare le orecchie e il mento come punti di riferimento. Una volta identificati occhi, naso, orecchie e mento, questi punti vengono sfruttati per creare dei triangoli immaginari. La distanza e gli angoli tra questi punti possono essere unici per ogni individuo, quindi vengono utilizzati per creare una “firma” facciale. Poi, le misure e gli angoli dei triangoli vengono normalizzati per compensare variazioni di scala, rotazione e prospettiva. Ciò significa che il sistema è in grado di riconoscere un volto indipendentemente da quanto sia vicino o lontano o dall’angolo di vista. Se c’è una corrispondenza sufficientemente alta rispetto a volti già in memoria, il nuovo volto viene riconosciuto come appartenente a una determinata persona. Se non c’è corrispondenza, il volto può essere classificato come sconosciuto. Questa tecnica viene utilizzata in vari contesti, come il riconoscimento facciale nei sistemi di sicurezza, nelle applicazioni di autenticazione biometrica e nella sorveglianza.

Qualcosa di simile fa anche il nostro cervello, estremamente abile nell’identificare e riconoscere volti, basandosi su punti chiave come gli occhi, il naso, la bocca e la distanza tra questi. Anche se non calcoliamo esplicitamente i triangoli o le distanze, riusciamo ad analizzare automaticamente le relazioni spaziali tra questi punti. Come gli algoritmi di riconoscimento facciale, anche il cervello utilizza le proporzioni tra i diversi elementi del volto (ad esempio, la distanza tra gli occhi e il naso o tra le orecchie e il mento) per distinguere un volto da un altro. Questa analisi avviene in una regione chiamata area fusiforme dei volti (FFA), che è specializzata proprio nel riconoscimento facciale.
La Fusiform Face Area si trova nel giro fusiforme, nella parte inferiore del lobo temporale, lungo la superficie ventrale di entrambi gli emisferi, ma è spesso più attiva nell’emisfero destro. E’ specializzata nel riconoscimento dei volti e nella discriminazione di caratteristiche facciali, giocando un ruolo cruciale nella nostra abilità di identificare e ricordare volti familiari.
Il cervello dunque immagazzina informazioni sui volti che abbiamo già visto, associandole a una memoria visiva. Quando vediamo un viso, la FFA confronta queste informazioni con quelle memorizzate per determinare se questo è familiare o meno. Tuttavia non si limita a elaborare singoli punti o proporzioni, ma utilizza sia un’elaborazione globale (l’aspetto generale del volto) sia un’elaborazione locale (dettagli specifici come un neo o una cicatrice). Questo ci rende molto efficace nel riconoscimento, anche in condizioni non ideali (ad esempio, con poca luce o visione da angoli insoliti).

Il riconoscimento facciale nel cervello umano è estremamente rapido. Entro pochi millisecondi, possiamo identificare se un volto è familiare, se appartiene a una certa età o sesso, e anche riconoscere espressioni facciali che indicano emozioni. A differenza degli algoritmi, noi siamo in grado di adattarci e apprendere continuamente. Questo significa che, anche se le proporzioni di un volto cambiano (ad esempio, a causa dell’invecchiamento), siamo ancora in grado di riconoscere la persona.

Quindi, la prossima volta che indossiamo gli occhiali da sole e vogliamo o dobbiamo incrociare lo sguardo con  qualcuno, togliamoceli; dietro ogni volto c’è una storia unica da scoprire. Connettiamoci, sorridiamo e lasciamo che la nostra umanità brilli, perché, in fondo, è questo che ci rende davvero riconoscibili!

Nella figura in giallo è evidenziato il giro fusiforme. Lesioni bilaterali (ma anche solo a livello dell’emisfero destro) impediscono il corretto riconoscimento dei volti. Questo deficit è conosciuto come prosopoagnosia.

PRIMIZIE

Il canto segreto dell’Amore: note di Poesia nell’eco del Tempo.

Primizie” si presenta non soltanto come una raccolta poetica, ma come un’opera d’arte che abbraccia l’intima essenza dell’esperienza umana, elevando la parola poetica a strumento privilegiato di esplorazione e di espressione del sentimento. Antonino Marcello Pilia, con l’acume di un Artista consapevole e la delicatezza di un’anima sensibile, intesse una sinfonia di emozioni che trovano la loro culla nel vissuto quotidiano, trasfigurato dalla poesia.

Il titolo stesso, “Primizie”, evoca l’idea di un’offerta, di un dono prezioso che l’autore porge al lettore, un dono che è il frutto primigenio del suo cuore e della sua mente. Le 88 poesie che compongono la raccolta, come i tasti di un pianoforte, disegnano una melodia che è allo stesso tempo complessa e armoniosa, dove ogni nota, ogni verso, è un’esplorazione del sentimento amoroso, inteso nella sua dimensione più vasta e profonda.

Pilia, con una padronanza stilistica che tradisce un rigoroso lavoro di riflessione e di affinamento, riesce a sublimare l’esperienza individuale, trasformandola in un diario lirico che trascende il tempo e lo spazio. Ogni poesia è un frammento di eternità, in cui l’amore, sebbene ormai concluso, continua a vivere e a pulsare, reso immortale dall’arte del verso. Qui l’Amore non è mero oggetto di rappresentazione, ma si fa soggetto attivo, presenza viva che anima l’intera raccolta, conferendo ad essa una tensione emotiva che si rivela in ogni parola.

domattina
non mi sveglierà il tuo bacio,
ma il suo indelebile ricordo:
nei miei versi è rimasto
il tuo rossetto.


velluto
al fianco onorato,
al volto sfiorato,
unguento di vita
tua mano: ristoro.


Nell’ordine cronologico che l’Autore ha scelto per disporre le sue composizioni, si percepisce una chiara volontà di tracciare un percorso, una narrazione che accompagna il lettore lungo le tappe di un viaggio esistenziale. Questo percorso, tuttavia, non è lineare, ma piuttosto un ritorno continuo sul medesimo punto: il cuore dell’esperienza amorosa, che viene rielaborata e ripensata attraverso la lente del presente.

La lingua di Pilia, semplice ma carica di suggestioni, risponde perfettamente alla sua poetica. Egli non cerca l’artificio retorico né la sperimentazione formale fine a sé stessa, ma punta alla verità del sentimento, alla sincerità dell’espressione. Ecco allora che i suoi versi, pur nella loro apparente semplicità, si rivelano densi di significati, capaci di toccare le corde più intime dell’animo umano.

In questa raccolta, Pilia si dimostra un autentico Poeta nel senso crociano del termine: egli è capace di dare forma all’indistinto, di trasformare l’esperienza soggettiva in un’opera d’arte universale, che parla al cuore di ogni lettore. “Primizie” è, dunque, non solo un prezioso scrigno di ricordi e sensazioni, ma una testimonianza della potenza della poesia, che si fa eco del passato e promessa del futuro, in un perpetuo dialogo con l’eterno.

In definitiva, “Primizie” è un’opera che va oltre la mera lettura: è un’esperienza da vivere, un viaggio interiore che invita il lettore a riflettere sul senso della vita, sull’Amore e sul potere redentore della Poesia. Antonino Marcello Pilia, con la sua raccolta, ci regala una vera e propria sinfonia lirica, in cui la parola diventa musica e la Poesia diventa vita.

Primizie
Antonino Marcello Pilia
G.C.L. Edizioni 2024

L’ANGELO DI BABBO NATALE


Non voleva partire, quella sera, Babbo Natale.

Il sacco con i doni era pieno, la slitta tirata a lucido, le renne strigliate pelo a pelo e ogni renna montava un campanellino nuovo. Gli Elfi avevano fatto proprio un buon lavoro, paziente e certosino, come ogni anno.

Sulla terra cominciava a imbrunire e scendevano le prime ombre della notte, quella più magica dell’anno, eppure Babbo Natale non voleva decidersi a partire. Girava a vuoto per la stanza inventandosi di tutto: riallacciava gli stivali, pettinava la barba ordinatissima, apriva la cintura… per richiuderla sempre sullo stesso buco; accendeva e spegneva le luci dell’albero a ritmo di “Jingle bells”, che oramai risuonava nell’aria da una buona mezz’ora, da quando cioè era prevista l’ora della sua partenza per la Terra. Sentiva che in quella notte mancava qualcosa e che per questo il suo lungo viaggio non sarebbe stato lo stesso di sempre: presentimento, sesto senso… non si era mai sentito così in vita sua e per la prima volta era un po’ malinconico.
Gli bussarono alla porta: era Jorg, l’Elfo più anziano: “Babbo Natale, che succede, non ti senti bene?”…gli dette una pacca sulla spalle e alla fine lo convinse, di malavoglia, a partire.

Ecco la Notte: amava annusare l’aria di dicembre. Scendendo da nord c’era prima l’odore del ghiaccio di mare, poi quello degli arbusti delle tundre, dei boschi di conifere. Poi le case; qui i profumi diventavano di legno di camino e ciambelle appena sfornate … aveva con gli anni imparato ad apprezzare anche i profumi delle città, soprattutto quando tra i miasmi di fabbriche e benzine sentiva la vaniglia delle camerette dei bambini, che lo invocavano a gran voce, giuravano di essere stati buoni tutto l’anno, chiedendogli i regali più semplici e fantasiosi.

Un camino dopo l’altro, un albero dopo l’altro, un bimbo dopo l’altro … “E’ un lavoro duro, ma qualcuno lo deve pur fare”.. si disse Babbo Natale per strapparsi un sorriso e in quell’attimo si rese conto di essere un po’ solo e che da sempre, in quella notte, magica nessuno aveva pensato mai a lui.
Continuava il suo viaggio e ovunque  scorgeva distintamente accanto ad ogni uomo, donna, vecchio o bambino del pianeta un Angelo; ognuno aveva il suo e ogni Angelo accompagnava gli uomini, le donne, i bambini e i vecchi nel loro cammino, proteggendoli certo, ma più spesso facendoli sorridere. Si fermò e capì, in un attimo, perché talvolta gli Uomini sorridono senza motivo, come a rincorrere un pensiero felice: è la carezza del loro Angelo.

Allora Babbo Natale cominciò con agitazione anzi con foga crescente a cercare il suo: rovistava in tutti i presepi delle case, delle chiese, nei grandi negozi che stavano chiudendo, nei libri delle biblioteche, nei racconti e nelle poesie .. cercava una traccia, un indizio. Non sarebbe ripartito, quella notte, dalla terra senza il suo Angelo.

Ad un certo punto sentì, nel coro delle voci che lo invocavano (che cominciavano a sembrargli querule e petulanti) una voce sottile ma ferma… di bimba sicuramente… che diceva “Babbo Natale ti voglio bene”!
Corse in quella direzione e la trovò: alta ed esile, bionda, gli occhi azzurri e verdi con tutti i colori del mare, col sorriso più dolce e vero che avesse mai visto … eppure di sorrisi ne aveva visti tanti …
Babbo Natale, voglio venire con te.”
Babbo Natale parcheggiò le renne in doppia fila,  scese dalla slitta, poggiò a terra il sacco dei regali, si tolse il cappello e la bimba gli fece una carezza; in quell’istante cominciò a sentirsi diverso … prima gli scomparve la lunga barba bianca, poi il pancione, adesso i vestiti addosso gli stavano larghi e lunghi, la pelle delle mani tornava liscia … in un istante e si ritrovò bambino … si avvicinò, le dette un bacino in fronte e disse “vengo io con te”.

Da quel Natale tutti i genitori e i nonni della terra furono costretti, loro, a comprare e comprarsi i regali, qualcuno travestendosi da Babbo Natale, per continuare la tradizione e cercare di rendersi felici.