“Si vis pacem, para bellum” – Se vuoi la pace, prepara la guerra: un’eredità da ripensare?

Da secoli, la massima latina “Si vis pacem, para bellum” – attribuita a Vegezio, scrittore romano del IV secolo d.C. – echeggia nei manuali di strategia, nelle accademie militari, nei corridoi del potere. Letteralmente: “Se vuoi la pace, prepara la guerra”. Un principio che ha orientato la geopolitica occidentale, dalla Roma imperiale agli arsenali nucleari della Guerra Fredda, passando per le alleanze difensive moderne.

Ha funzionato?

A ben vedere, la storia offre esempi contrastanti. In alcuni casi, la deterrenza ha funzionato: l’equilibrio del terrore tra Stati Uniti e URSS, fondato sull’arsenale nucleare, ha paradossalmente evitato uno scontro diretto. Tuttavia, la corsa agli armamenti ha alimentato decine di conflitti periferici e ha drenato risorse che potevano essere destinate allo sviluppo umano.

Al contrario, nel XX secolo, due guerre mondiali sono esplose nonostante – o proprio a causa – di un crescente riarmo. Il primo conflitto fu preceduto da un’escalation di potenza navale e terrestre; il secondo nacque in un’Europa lacerata, dove la preparazione alla guerra era diventata cultura dominante. In entrambi i casi, la guerra non ha evitato la guerra.

Un nuovo paradigma?

In un mondo globalizzato, interconnesso e minacciato da crisi ecologiche, pandemie e disuguaglianze estreme, forse è tempo di interrogarsi: “Se vuoi la pace, prepara la pace”. Questa frase, apparentemente ingenua, racchiude una rivoluzione culturale. Non significa disarmo unilaterale, ma investimento sistemico nella diplomazia, nella cooperazione, nell’educazione alla giustizia sociale.

L’Unione Europea – nata dalle macerie della Seconda guerra mondiale – ha tentato, per un periodo, di incarnare questa visione: integrazione economica per scongiurare nuovi conflitti. Anche l’ONU, pur tra mille limiti, rappresenta un modello di governance globale basata sul dialogo. Eppure, oggi, la fiducia in questi strumenti vacilla. Guerre regionali, migrazioni forzate e nuove minacce digitali rimettono in discussione la validità della pace come progetto costruito.

Quale futuro?

“Preparare la pace” implica rimuovere le cause strutturali dei conflitti: povertà, sfruttamento, disuguaglianze, manipolazioni identitarie. Significa dotare le società non solo di armi, ma di giustizia, ascolto, mediazione. Non si tratta di utopia, ma di realpolitik lungimirante.

Forse, la frase di Vegezio va riletta non per essere cancellata, ma per essere completata:
“Si vis pacem, para pacem. Et si bellum times, iustitiam quaere”
“Se vuoi la pace, prepara la pace. E se temi la guerra, cerca la giustizia.”

Perché nessuna pace sarà mai duratura se fondata sulla paura anziché sulla dignità condivisa.